Dizionario dell'accoglienza #2: corridoi umanitari

Un corridoio è, nella concezione comune, un passaggio lungo e stretto che permette di arrivare da una stanza a un'altra senza attraversare le stanze che stanno nel mezzo. Di solito nelle case conduce dalla zona notte alla zona giorno, da dove si dorme a dove si vive. È bello pensare così anche i corridoi umanitari: un passaggio per andare da un luogo dove la propria vita è forzata al sonno a un altro luogo dove si potrà ricominciare a vivere. Senza attraversare quei luoghi dove la vita viene minacciata da guerre, regimi, carcerazioni sommarie, trafficanti di vite umane e confini difficili da valicare, dove la vita diventa un filo così sottile che troppo facilmente può essere spezzato.

I corridoi umanitari sono disgraziatamente tornati in cima alla cronaca di questi giorni. Sono stati chiesti e si è cercato di attuarli per mettere in salvo i civili ucraini dalle bombe e dai carriarmati. Oggi stesso (14 marzo) fonti ucraine comunicano che sono stati aperti dieci corridoi per mettere in salvo la gente nei dintorni di Kiev. Questi sono i corridoi umanitari che "attraversano" una guerra: vie di fuga protette lungo le quali le ostilità vengono sospese.

Il progetto della Sant'Egidio

Ma quello dei corridoi umanitari è anche un progetto pilota, tutto italiano, nato nel 2015 sulle rovine di un'altra guerra devastante: quella in Siria. In quell'anno, infatti, la Comunità di Sant'Egidio, insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, alla Tavola Valdese e alla Cei-Caritas Italiana, ha avviato il progetto "Apertura di corridoi umanitari" per permettere ai profughi, in prevalenza siriani, rifugiati in Libano di raggiungere l'Europa attraverso una via sicura e legale, evitando i viaggi della disperazione. Da allora sono stati accolti in Italia, grazie ai corridoi, più di tremila profughi.


Grazie alla presenza sul posto di esperti e volontari, queste associazioni proponenti prendono contatti diretti coi profughi e predispongono una lista di potenziali beneficiari da proporre al Ministero degli Interni italiano. Sia le associazioni che il Ministero verificano le famiglie segnalate, dando una doppia garanzia sull'ingresso di queste persone nel nostro paese.
Le famiglie ottengono così un visto umanitario che gli permetterà di arrivare in Italia e, una volta qui, fare richiesta di asilo.

E una volta arrivati in Italia?

I profughi che arrivano nel nostro Paese spesso non conoscono la nostra lingua né come funzionano le cose, non hanno lavoro né soldi messi da parte. Lo stato italiano, a parte garantire il visto, non dà nessun altro sostegno. Una volta qua, se non fossero accompagnati in un percorso di integrazione, sarebbero abbandonati a se stessi e probabilmente incapaci di districarsi tra le nostre complesse pratiche burocratiche o nella banale ricerca di una casa, il che comprometterebbe la buona riuscita del progetto. È la società civile che a questo punto entra in gioco, sgravando lo Stato degli oneri, non solo economici, dell'accoglienza. Il progetto prevede infatti la collaborazione con associazioni o reti di accoglienza sparse sul territorio italiano che si prendano carico della loro integrazione. Ogni famiglia viene assegnata a una rete di accoglienza che si prenderà cura di loro per un periodo di circa due anni durante il quale si stima che la famiglia acquisisca le capacità necessarie per essere autonoma. Il sostegno economico al progetto (compresi i viaggi verso l'Italia) arriva dall'8X1000 della Tavola Valdese e dalle donazioni private fatte alle altre organizzazioni in gioco.

Il nostro caso

La nostra rete è una di queste numerose realtà che si sono prese l'impegno di accompagnare una famiglia nel suo inserimento in Italia. Operazione colomba, il Corpo non violento e di pace dell'associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, è una delle associazioni presenti sul luogo (in particolare sono presenti dal 2014 nel campo profughi di Tel Abbas, in Libano) che prendono contatti diretti con i profughi. La famiglia di O. e A. è una di quelle tante famiglie che, fuggite dalla guerra e dalla violenza, hanno affrontato non solo la vita nel campo profughi (dove sono nati i loro figli) ma anche le carcerazioni sommarie e il tentativo (fallito, mettendo a rischio la loro vita) di attraversare il Mediterraneo sui barconi dei trafficanti.

Corridoi umanitari: un modello per l'Europa

Il progetto della Comunità di Sant'Egidio ha dato ottimi risultati. È uno dei modelli di accoglienza che gli Stati europei hanno a disposizione come alternativa sicura e legale ai viaggi della disperazione. A differenza di altri modelli di accoglienza europei, come il resettlement (o reinsediamento), ha il vantaggio che gli attori principali sono organizzazioni della società civile e non gli Stati, il che dona una maggiore operatività, anche perché non sono gli Stati a dover provvedere economicamente ai rifugiati. Tuttavia lo Stato opera con una supervisione sugli ingressi, garantendo una selezione sicura dei destinatari del progetto e uno snellimento delle pratiche burocratiche per l'ottenimento del visto. 
Il premio Nansen 2019 consegnato ai rappresentanti
delle realtà promotrici dei corridoi umanitari
(Foto:UNHCR) 
Il progetto ha ottenuto nel 2019 il premio Nansen per i Rifugiati dell'UNHCR (l'Alto Commissariato dell'ONU per i Rifugiati) "per aver assicurato a migliaia di rifugiati e persone con esigenze specifiche un canale sicuro per ricevere protezione e la possibilità di ricostruirsi un futuro migliore in Italia".
A dicembre l'UNHCR e la Comunità di Sant'Egidio hanno firmato un memorandum d'intesa per potenziare la risposta alle emergenze umanitarie soprattutto attraverso il programma italiano dei corridoi umanitari, diventato un modello per l'Europa.





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